Intervento di Guy Ryder «Il futuro del lavoro e lo sviluppo sostenibile»

Il Direttore Generale dell’OIL ha partecipato al seminario globale organizzato dalla Chiesa cattolica a Roma in occasione delle celebrazione della festa di San Giuseppe Lavoratore.

Dichiarazione | 4 maggio 2016
Grazie Eminenza, Cardinale Turkson per la calorosa accoglienza.

Eminenza,

Cari amici,

Vorrei esprimere il mio apprezzamento agli organizzatori di questo evento: il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e i nostri amici della Caritas Internationalis. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) è veramente lieta di collaborare con Voi a questa importante iniziativa.

Questo seminario globale coincide con la festa di san Giuseppe Lavoratore e ci permette di riflettere su quelle che tutti dobbiamo considerare come le sfide proprie del nostro tempo: quella dello sviluppo sostenibile e quella di garantire un futuro dignitoso per il lavoro.

Vorrei iniziare sottolineando qualcosa che probabilmente è familiare a tutti i presenti, ma che tengo a evidenziare, cioè la comunanza di valori che esiste tra la dottrina sociale della Chiesa cattolica e l’OIL. Fra tre anni celebreremo il centenario dell’OIL e la nostra attenzione si proietta verso il futuro del lavoro, sul futuro che vogliamo creare insieme.

Allo stesso tempo, se guardiamo alla nostra storia, risulta evidente che le origini dell’OIL sono strettamente collegate alla dottrina sociale della Chiesa, a partire dalla Rerum Novarum fino ad oggi. Questo intreccio storico e comunanza di valori costituiscono un ottimo punto di partenza per cercare di rispondere insieme alle questioni inerenti al futuro del lavoro.

Nell’ascoltare padre Kiley, membro di un sindacato statunitense che conosco molto bene, dire che tutte le fedi predicano la giustizia. Ho ricordato che, fin dagli albori dell’Organizzazione, la missione dell’OIL è stata quella di promuovere la giustizia sociale. Credo che tutti riconosciamo l’importanza di costruire alleanze per lavorare insieme alla realizzazione dei valori condivisi.

Oltre predicare la giustizia, tutte le fedi riconoscono il valore del lavoro.

Mentre parlavano gli altri relatori,, ho ripensato ad alcune citazioni davvero interessanti tratte dall’enciclica Laudato sì, che ribadiscono un’importante verità: «Siamo chiamati al lavoro [...]. Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale» (n. 128).

Ritengo che questi elementi siano stati persi di vista nel contesto politico attuale e che facciano parte di ciò che dobbiamo porre con decisione al centro delle nostre discussioni.

Con l’avvicinarsi del suo centenario, l’OIL ha la grande responsabilità di riflettere sulle proprie capacità di promuovere e accrescere la sua vocazione alla giustizia sociale, in circostanze particolarmente complesse.

La mia opinione — simile ma probabilmente non identica a quelle ascoltate questa mattina e in precedenti occasioni — è che il mondo del lavoro si trova a fronteggiare due crisi interconnesse e un intenso processo di cambiamento. Questo contesto ci pone di fronte a sfide caratterizzate da una complessità senza precedenti.

Ho sentito e letto, nella dichiarazione che avete adottato questa mattina, l’idea che siamo di fronte a una crisi a due facce: una economica e una ambientale. Eminenza, conosco bene e ammiro il ruolo che Lei ha assunto rispetto alle tematiche ambientali.

Ritengo tuttavia che questa duplice crisi debba essere analizzata sotto una lente diversa. La prima crisi è quella dello sviluppo sostenibile, e ritengo che essa includa tutte e tre le dimensioni dello sviluppo: quella economica, quella sociale e quella ambientale.

Allo stesso tempo, vedo un’altra crisi connessa con la prima, ovvero la crisi dei valori. Queste due crisi non sono indipendenti e non è una coincidenza che si presentino insieme: una è conseguenza dell’altra.

Non voglio indugiare sui dettagli della crisi economica globale. Li conoscete bene. Siamo di fronte a un sistema economico globale incapace di fornire un lavoro di qualsiasi tipo a circa 200 milioni di persone. Non sto parlando di un lavoro dignitoso, ma di un lavoro qualunque; e sappiamo quanto sia drammatica la crisi dell’occupazione per i giovani. Chi ha meno di 25 anni ha una probabilità tre volte maggiore rispetto agli adulti di trovare un’occupazione.

Questi dati, comunque, non catturano la vera natura della crisi occupazionale se non si considera la dimensione qualitativa. Ci sono 168 milioni di bambini che lavorano, 21 milioni di persone che vivono in condizioni di lavoro forzato o di schiavitù, e c’è la drammatica situazione del lavoro informale.

Nei paesi in via di sviluppo, quasi la metà dei lavoratori opera in condizioni di completa informalità e ciò risulta in situazioni di marcata vulnerabilità se non di vero e proprio sfruttamento. Siamo consapevoli del persistere di una crisi economica globale per la quale non appaiono soluzioni immediate per i decisori di politica. Questo mi porta al secondo aspetto della crisi, quello dei valori. Francamente trovo complicato interagire con i decisori di politica di altre organizzazioni internazionali e a livello nazionale nel discutere l’importanza dei valori nelle decisioni di politica.

Spero che quanto sto per dire non scandalizzi ma in alcuni ambienti in cui sono chiamato a intervenire, quando parlo di valori, quando utilizzo parole come “solidarietà”, mi sembra di essere percepito come se oltraggiassi.

Ci sono parole che non si usano In certi ambiti. Ma sterilizzando l’agenda politica internazionale, togliendo ogni riferimento ai valori per far fronte alla visione tecnocratica dell’operatività dei mercati e del loro bisogno di maggiore efficienza, i decisori di politica stanno perdendo di vista l’obiettivo stesso che le politiche dovrebbero perseguire.

Do un esempio concreto. La settimana scorsa ho partecipato a una discussione sull’impatto delle nuove tecnologie sul futuro del lavoro, e ho preso nota del punto di vista di un alto dirigente di una società multinazionale che opera a livello globale nel settore delle tecnologie dell’informazione. Egli diceva: «per sopravvivere agli effetti della quarta rivoluzione industriale, ormai prossima, i lavoratori dovranno rendersi meno costosi delle macchine». Ecco la soluzione proposta da un eminente esperto nel campo della tecnologia.

Non cito queste parole al fine di screditare qualcuno ma per illustrare il mio punto di vista. Se si prova ad affrontare le sfide poste dalle nuove tecnologie escludendo la questione dei valori e persino il fine stesso della tecnologia, si giunge inevitabilmente a soluzioni sbagliate.

Il mio punto di vista sulle nuove tecnologie — ne hanno parlato questa mattina il Signor Cortebeeck e altri — è che sia abbastanza illogico e paradossale trovarsi in una situazione in cui il progresso tecnologico diventi un elemento ostativo nei confronti dei valori della giustizia sociale e del progresso umano.

È qualcosa di profondamente contraddittorio, perché in definitiva la tecnologia è uno strumento di liberazione e di emancipazione finalizzato al raggiungimento del benessere collettivo e al servizio del progresso delle nostre società. Se non riuscissimo ad inquadrare la tecnologia in questo contesto, falliremmo nel perseguimento dell’obiettivo del bene comune.

Come conseguenza di questa doppia crisi dello sviluppo e dei valori vedo qualcosa che dovrebbe preoccupare tutti noi, ovvero l’aumento nel mondo del numero dei conflitti e degli scontri e una crescente diffusione dell’alienazione, in particolare tra i giovani.

Quando mi reco in visita nei diversi paesi — Eminenza, Lei ha fatto allusione ai miei viaggi —, mi accorgo che i giovani in modo particolare, ma non solo loro, nutrono un profondo sentimento di sfiducia nei confronti delle istituzioni e della classe politica.

Non è qualcosa che riguarda semplicemente le condizioni materiali, ma è piuttosto la percezione che i nostri rappresentanti politici e istituzionali non riescano ad entrare in contatto con la popolazione e comprenderne le esigenze che scaturiscono dalla duplice crisi di sviluppo e di valori. Ne vediamo i riflessi sul piano politico: crescita dell’estremismo, degli episodi di xenofobia e di disattenzione nei confronti del prossimo. È una situazione che richiede una risposta urgente da parte nostra.

Ho detto e ribadisco che considero un imperativo assoluto per l’OIL prestare attenzione alle necessità di coloro che sono più vulnerabili nel mondo del lavoro.

Un’organizzazione composta dai governi dei movimenti sindacali e datoriali di tutto il mondo, può correre il rischio di lasciare indietro o da parte milioni di persone che, nel mondo del lavoro, non appartengono ad alcuna organizzazione o movimento di lavoratori, i quali non lavorano in imprese formali e non rientrano nell’ambito di azione dello Stato o non vi rientrano facilmente.

Lo ripeto fin dall’inizio del mio mandato all’OIL, e sono molto felice che l’Organizzazione, con la sua recente azione normativa, si sia fatta carico dei bisogni particolari delle lavoratrici e dei lavoratori domestici, oltre 50 milioni di persone, soprattutto donne, molto spesso migranti, che sono quasi sempre invisibili nel mondo del lavoro e non vengono considerati come lavoratori da coloro per i quali lavorano.

Con l’adozione della Convenzione n. 189, abbiamo fornito un quadro giuridico internazionale per il riconoscimento dei diritti di questi lavoratori, e questo fa la differenza. Mi fa molto piacere che, in questi ultimi giorni, il Cile abbia ratificato la Convenzione e il Brasile abbia espresso la volontà di fare altrettanto.

Sono anche molto felice che lo scorso anno l’OIL abbia adottato una raccomandazione sull’economia informale e sulla transizione verso l’economia formale: un altro sforzo per raggiungere coloro che troppo spesso rimangono fuori dalla portata degli strumenti d’azione tradizionali.

Vorrei anche sottolineare la questione dei lavoratori agricoli. L’OIL ha dimenticato il settore agricolo per una ventina d’anni. Abbiamo ridato priorità a tale settore e ai suoi lavoratori attraverso un programma specifico della nostra Organizzazione.

Riprendendo alcune delle affermazioni echeggiate in questa sala questa mattina. Sono d’accordo che ci troviamo di fronte a una sfida forse ancora più grande di quelle precedentemente menzionate. Il mondo ha urgente bisogno di trovare un nuovo percorso per fronteggiare la questione della mobilità umana. Uso di proposito l’espressione “mobilità umana”, in quanto non è sufficiente limitarsi a parlare di migrazioni, rifugiati o sfollati presunti: dobbiamo parlare dell’insieme di queste realtà.

Al mondo manca un quadro politico, ma soprattutto la volontà politica per trattare il tema della mobilità degli esseri umani compatibilmente ai valori di cui ho parlato all’inizio del mio intervento. È incoraggiante che dopo un anno di azione multilaterale, culminata con l’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico e con l’adozione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, la comunità internazionale, quest’anno, rivolga la sua attenzione alle questioni umanitarie e della mobilità. Questo mese si terrà a Istanbul il Vertice umanitario mondiale e a settembre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dedicata agli spostamenti delle popolazioni su larga scala.

Ci troviamo di fronte a un’ autentica opportunità di operare un cambiamento qualitativo nel nostro modo di affrontare tali e so che gli italiani qui presenti sono particolarmente sensibili a questi temi, anche alla luce delle attuali circostanze.

Su questi temi viene quasi automatico far riferimento ad alcune dichiarazioni di Papa Francesco. Sono rimasto particolarmente colpito dalla sua affermazione sulla globalizzazione dell’indifferenza: l’indifferenza è forse il nostro principale nemico mentre cerchiamo di promuovere i nostri valori.

Quale più grande espressione d’indifferenza — se non addirittura di totale rifiuto — può esserci oltre quella manifestata nel modo in cui rifugiati e profughi vengono trattati nelle diverse parti del mondo. In molte regioni le frontiere si stanno chiudendo. Penso che tale indifferenza stia aprendo la via al rifiuto e all’emarginazione. Questa indifferenza va combattuta.

Volgo alla mia conclusione.

Innanzitutto, vorrei congratularmi con tutti i partecipanti a questo seminario per l’eccellente documento che è stato appena adottato. È stato bello fare una pausa sentendosi soddisfatti per il lavoro svolto. Il testo che avete approvato mi piace — sappiate che l’OIL farà la propria parte per metterlo in atto — perché vi ho ritrovato un’eco dell’appello lanciato da Papa Giovanni Paolo II durante il Giubileo dei lavoratori del 2000: un evento al quale la stessa OIL era associata.

Nel 2000 il Papa Giovanni Paolo II lanciò un appello per la creazione di una coalizione mondiale a favore del lavoro dignitoso[1]. Nelle circostanze attuali, abbiamo la possibilità di dare corso a questa coalizione, grazie all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile che è impregnata dell’imperativo del lavoro dignitoso come strumento per la sua realizzazione. Questo può essere riscontrato, non solo l’Obiettivo 8, dedicato proprio al lavoro dignitoso, ma anche in altri Obiettivi che si focalizzano sulle pari opportunità, la lotta alle disuguaglianze, e la promozione dell’inclusione sociale.

Abbiamo una straordinaria opportunità di raggiungere i valori e degli obiettivi che condividiamo. Quale modo migliore di farlo se non dando una risposta concreta, attraverso nuovi percorsi dal punto di vista qualitativo, all’appello del 2000 per una coalizione globale per il lavoro dignitoso?

Penso che le premesse ci siano tutte e il documento che avete adottato indica la direzione da seguire. Credo si possa andare avanti insieme.

Vi prego quindi di contare sul fatto che l’OIL è pronta a fare la propria parte in questa iniziativa.

Ringrazio tutti di essere qui oggi e di aver reso possibile questo evento.



[1] L’appello è stato ripreso nell’enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate (2009), al n. 63.