Lavoro forzato
Perché le definizioni sono importanti
Le definizioni sono importanti per produrre dati affidabili e per orientare l’azione in materia di lavoro forzato e lavoro minorile. E questo ci aiuta anche a giustificare gli sforzi che facciamo per favorire il cambiamento in nome di quelle persone che attualmente sono le più sfruttate nel mondo.
Di Beate Andrees, ILO, Programma d’azione speciale contro il lavoro forzato
Quando Candido, famosa satira di Voltaire, arriva a Lisbona con il suo precettore Pangloss assiste agli orrori del terribile terremoto. Era il primo di una serie di eventi tragici della sua vita tanto che, alla fine del suo lungo viaggio, egli respinge l’insegnamento del suo precettore che sostiene di «vivere nel miglior mondo possibile».
Oggi, quando vediamo i bambini che lavorano nelle miniere e nelle cave, nelle piantagioni o come domestici lontani dalle loro famiglie, ci rendiamo conto che questo non è certo il «miglior mondo possibile». Questi bambini meritano di più e noi vogliamo che tutto ciò cambi. Ma, perché ciò avvenga, dobbiamo metterci d’accordo su cosa vogliamo cambiare. La soluzione del problema inizia con un semplice ma fondamentale assunto: la loro definizione. Da questo dipenderà se e come risolveremo il problema.
Questo è il motivo per cui il dibattito internazionale che conduce all’adozione di uno strumento giuridico richiede molto tempo per la delibera finale di definizioni e concetti. Quando gli Stati membri dell’ILO, le organizzazioni dei datori di lavoro e i sindacati hanno negoziato la nuova Convenzione sulle peggiori forme di lavoro minorile, ci sono voluti più di due anni per giungere ad una definizione e alla sua adozione nel 1999.
La Convenzione fa un’importante distinzione tra bambini in stato di schiavitù, servitù per debiti, servitù, tratta di minori o sottoposti a lavoro forzato e quelli coinvolti in «lavori pericolosi». Tutte queste forme di lavoro minorile devono essere eliminate nel minor tempo possibile. La Convenzione è parte di un vasto sistema di norme delle Nazioni Unite e dell’ILO che definisce la schiavitù, il lavoro forzato e la tratta di esseri umani, compreso il recente Protocollo delle Nazioni Unite per prevenire, eliminare e punire la tratta di esseri umani.
Indipendentemente da dove siano stati negoziati questi strumenti, a Ginevra o a Vienna, i redattori avevano chiaro che i bambini non possono dare volontariamente il «consenso» allo sfruttamento e che il libero movimento non garantisce il lavoro libero. Queste Convenzioni hanno quasi raggiunto la ratifica universale e, benché le definizioni possono non essere perfette, sarebbe molto pericoloso iniziare a metterle in discussione.
L’esistenza di diverse definizioni giuridiche, che in ogni caso hanno molto in comune, ha talvolta generato confusione e ora si corre il rischio di chiamare ogni forma di sfruttamento «schiavitù» o «tratta». Questa generalizzazione dello sfruttamento (exploitation creep), come indicato dalla studiosa di diritto Janie A. Chuang, associa a determinate pratiche un’etichetta più estremizzata e ben lontana da quella strettamente giuridica. In altre parole, non tutti i bambini esposti a lavori pericolosi sono «schiavi», e non tutti i lavoratori che non ricevono un salario equo sono vittime di «lavoro forzato».
Senza dubbio, parlare di «schiavitù» attira più attenzione e spinge all’azione. Ma questo aiuterà i poveri ad uscire dallo loro condizione? La risposta è no. Porre fine alla schiavitù o al lavoro forzato richiede azioni mirate per cambiare le leggi, per assicurare i criminali alla giustizia, per proteggere le vittime. Alcune misure di prevenzione, come quelle di eliminare le pratiche di reclutamento e remunerazione illegali o la scolarizzazione dei bambini, possono contribuire in grande misura ad affrontare i problemi strutturali ma molto di più deve essere fatto per assicurare un lavoro dignitoso per tutti. Pertanto, le definizioni aiutano a delimitare un problema e ad agire di conseguenza.
Definizioni chiare sono anche utili a valutare i cambiamenti. Solo quantificando un problema siamo in grado di capire se esso è in diminuzione o in aumento nel corso del tempo, e soprattutto se siamo sulla strada giusta nel risolverlo. Alcuni problemi sono più facili da misurare di altri, e siamo tutti concordi nell’affermare che misurare la «schiavitù» pone una miriade di difficoltà. La natura nascosta di questo fenomeno, le sensibilità politiche e le considerazioni etiche possono rendere più difficile la realizzazione di ricerche a livello nazionale attraverso le quali è possibile ottenere dati affidabili.
Ma, forse, la sfida più difficile è la differente applicazione nei contesti nazionali di definizioni concordate a livello internazionale e la mancanza di indicatori statistici comuni che consentirebbero il confronto dei dati tra paesi. La Corte suprema indiana, ad esempio, ha stabilito che chiunque non riceva il minimo salariale è considerato in stato di servitù. Questo vuol dire che tutti i lavoratori sono «schiavi»? Se la risposta fosse positiva, anche la maggior parte dei lavoratori migranti dovrebbero essere considerati «schiavi». Oppure, nel caso della legge brasiliana contro il lavoro schiavo («trabalho escravo») che include il concetto di «condizioni di lavoro degradanti». Come si può confrontare con le condizioni di lavoro «degradanti» di altri paesi?
In risposta a questi quesiti, la Conferenza internazionale degli statistici del lavoro ha creato nel settembre dello scorso anno un gruppo di lavoro per elaborare una comune definizione di lavoro forzato da utilizzare nelle statistiche. Questa è la prima volta che la Conferenza affronta la questione con l’obiettivo di lungo termine di integrare i moduli del lavoro forzato all’interno delle normali ricerche sul lavoro forzato o di realizzare ricerche autonome sul tema. Il gruppo di lavoro riferirà i risultati alla Conferenza nel 2018.
Si può imparare molto dal processo che ha portato all’universale condivisione della definizione dell’ILO sul lavoro minorile. All’inizio il termine fu molto contestato ed esistevano pochi dati confrontabili. Nel 2008, la Conferenza degli statistici ha adottato norme di misurazione globali sul lavoro minorile. Oggi, molti Stati membri dell’ILO realizzano ricerche sul fenomeno consentendoci di produrre statistiche globali affidabili basate su un approccio comune al problema. A settembre dello scorso anno, l’ILO ha pubblicato nuove stime dimostrando che il lavoro minorile è diminuito da 245 a 168 milioni nell’arco di 20 anni.
In conclusione, le definizioni sono importanti per produrre dati affidabili e per orientare la nostra azione. E questo ci aiuta anche a giustificare gli sforzi che facciamo per favorire il cambiamento in nome di quelle persone che attualmente sono le più sfruttate nel mondo.
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Oggi, quando vediamo i bambini che lavorano nelle miniere e nelle cave, nelle piantagioni o come domestici lontani dalle loro famiglie, ci rendiamo conto che questo non è certo il «miglior mondo possibile». Questi bambini meritano di più e noi vogliamo che tutto ciò cambi. Ma, perché ciò avvenga, dobbiamo metterci d’accordo su cosa vogliamo cambiare. La soluzione del problema inizia con un semplice ma fondamentale assunto: la loro definizione. Da questo dipenderà se e come risolveremo il problema.
Questo è il motivo per cui il dibattito internazionale che conduce all’adozione di uno strumento giuridico richiede molto tempo per la delibera finale di definizioni e concetti. Quando gli Stati membri dell’ILO, le organizzazioni dei datori di lavoro e i sindacati hanno negoziato la nuova Convenzione sulle peggiori forme di lavoro minorile, ci sono voluti più di due anni per giungere ad una definizione e alla sua adozione nel 1999.
La Convenzione fa un’importante distinzione tra bambini in stato di schiavitù, servitù per debiti, servitù, tratta di minori o sottoposti a lavoro forzato e quelli coinvolti in «lavori pericolosi». Tutte queste forme di lavoro minorile devono essere eliminate nel minor tempo possibile. La Convenzione è parte di un vasto sistema di norme delle Nazioni Unite e dell’ILO che definisce la schiavitù, il lavoro forzato e la tratta di esseri umani, compreso il recente Protocollo delle Nazioni Unite per prevenire, eliminare e punire la tratta di esseri umani.
Indipendentemente da dove siano stati negoziati questi strumenti, a Ginevra o a Vienna, i redattori avevano chiaro che i bambini non possono dare volontariamente il «consenso» allo sfruttamento e che il libero movimento non garantisce il lavoro libero. Queste Convenzioni hanno quasi raggiunto la ratifica universale e, benché le definizioni possono non essere perfette, sarebbe molto pericoloso iniziare a metterle in discussione.
L’esistenza di diverse definizioni giuridiche, che in ogni caso hanno molto in comune, ha talvolta generato confusione e ora si corre il rischio di chiamare ogni forma di sfruttamento «schiavitù» o «tratta». Questa generalizzazione dello sfruttamento (exploitation creep), come indicato dalla studiosa di diritto Janie A. Chuang, associa a determinate pratiche un’etichetta più estremizzata e ben lontana da quella strettamente giuridica. In altre parole, non tutti i bambini esposti a lavori pericolosi sono «schiavi», e non tutti i lavoratori che non ricevono un salario equo sono vittime di «lavoro forzato».
Senza dubbio, parlare di «schiavitù» attira più attenzione e spinge all’azione. Ma questo aiuterà i poveri ad uscire dallo loro condizione? La risposta è no. Porre fine alla schiavitù o al lavoro forzato richiede azioni mirate per cambiare le leggi, per assicurare i criminali alla giustizia, per proteggere le vittime. Alcune misure di prevenzione, come quelle di eliminare le pratiche di reclutamento e remunerazione illegali o la scolarizzazione dei bambini, possono contribuire in grande misura ad affrontare i problemi strutturali ma molto di più deve essere fatto per assicurare un lavoro dignitoso per tutti. Pertanto, le definizioni aiutano a delimitare un problema e ad agire di conseguenza.
Definizioni chiare sono anche utili a valutare i cambiamenti. Solo quantificando un problema siamo in grado di capire se esso è in diminuzione o in aumento nel corso del tempo, e soprattutto se siamo sulla strada giusta nel risolverlo. Alcuni problemi sono più facili da misurare di altri, e siamo tutti concordi nell’affermare che misurare la «schiavitù» pone una miriade di difficoltà. La natura nascosta di questo fenomeno, le sensibilità politiche e le considerazioni etiche possono rendere più difficile la realizzazione di ricerche a livello nazionale attraverso le quali è possibile ottenere dati affidabili.
Ma, forse, la sfida più difficile è la differente applicazione nei contesti nazionali di definizioni concordate a livello internazionale e la mancanza di indicatori statistici comuni che consentirebbero il confronto dei dati tra paesi. La Corte suprema indiana, ad esempio, ha stabilito che chiunque non riceva il minimo salariale è considerato in stato di servitù. Questo vuol dire che tutti i lavoratori sono «schiavi»? Se la risposta fosse positiva, anche la maggior parte dei lavoratori migranti dovrebbero essere considerati «schiavi». Oppure, nel caso della legge brasiliana contro il lavoro schiavo («trabalho escravo») che include il concetto di «condizioni di lavoro degradanti». Come si può confrontare con le condizioni di lavoro «degradanti» di altri paesi?
In risposta a questi quesiti, la Conferenza internazionale degli statistici del lavoro ha creato nel settembre dello scorso anno un gruppo di lavoro per elaborare una comune definizione di lavoro forzato da utilizzare nelle statistiche. Questa è la prima volta che la Conferenza affronta la questione con l’obiettivo di lungo termine di integrare i moduli del lavoro forzato all’interno delle normali ricerche sul lavoro forzato o di realizzare ricerche autonome sul tema. Il gruppo di lavoro riferirà i risultati alla Conferenza nel 2018.
Si può imparare molto dal processo che ha portato all’universale condivisione della definizione dell’ILO sul lavoro minorile. All’inizio il termine fu molto contestato ed esistevano pochi dati confrontabili. Nel 2008, la Conferenza degli statistici ha adottato norme di misurazione globali sul lavoro minorile. Oggi, molti Stati membri dell’ILO realizzano ricerche sul fenomeno consentendoci di produrre statistiche globali affidabili basate su un approccio comune al problema. A settembre dello scorso anno, l’ILO ha pubblicato nuove stime dimostrando che il lavoro minorile è diminuito da 245 a 168 milioni nell’arco di 20 anni.
In conclusione, le definizioni sono importanti per produrre dati affidabili e per orientare la nostra azione. E questo ci aiuta anche a giustificare gli sforzi che facciamo per favorire il cambiamento in nome di quelle persone che attualmente sono le più sfruttate nel mondo.