Lavoro forzato

ILO: il lavoro forzato genera profitti annuali per 150 miliardi di dollari

Secondo il nuovo Rapporto dell’ILO, i profitti illeciti del lavoro forzato che coinvolge circa 21 milioni di persone sarebbero tre volte superiori a quelli precedentemente stimati.

Comunicato stampa | 20 maggio 2014
GINEVRA (ILO News) — Nell’economia privata, il lavoro forzato genera annualmente profitti illeciti tre volte superiori a quelli precedentemente stimati. È quanto afferma un nuovo rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO).

Secondo il Rapporto dell’ILO, Profits and Poverty: The Economics of Forced Labour (Profitti e povertà: l’economia del lavoro forzato), i due terzi del totale stimato di 150 miliardi di dollari, ovvero 99 miliardi, deriverebbero dallo sfruttamento sessuale a fini commerciali, mentre i restanti 51 miliardi sarebbero il risultato dello sfruttamento forzato a fini economici in settori come il lavoro domestico, agricolo e altre attività economiche.

Dichiarazione del Direttore Generale dell’ILO (in inglese)
«Questo nuovo Rapporto porta la nostra comprensione della tratta, del lavoro forzato e della moderna schiavitù ad un livello superiore», ha dichiarato il Direttore Generale dell’ILO, Guy Ryder. «Il lavoro forzato è nocivo per le imprese e per lo sviluppo, e soprattutto per le sue vittime. Questo rapporto attribuisce un nuovo carattere di urgenza ai nostri sforzi per sradicare il prima possibile questa pratica nefasta, ma estremamente redditizia».

I nuovi dati si basano su uno studio dell’ILO pubblicato nel 2012 secondo il quale il numero delle persone vittime del lavoro forzato, tratta e schiavitù moderna ammontava a 21 milioni.

Secondo il nuovo rapporto, più della metà delle vittime sono donne e ragazze, principalmente sfruttate sessualmente a fini commerciali e nel lavoro domestico, mentre gli uomini e i ragazzi sono perlopiù sfruttati per fini economici nei settori dell’agricoltura, costruzioni e minerario.

Di seguito, la ripartizione dei profitti generati dallo sfruttamento forzato a fini economici:
  • 34 miliardi di dollari nei settori delle costruzioni, manifatturiero, minerario e servizi.
  • 9 miliardi di dollari in agricoltura, tra cui silvicoltura e pesca.
  • 8 miliardi di dollari risparmiati dalle famiglie che non pagano o sottopagano i lavoratori domestici in condizioni di lavoro forzato.
Secondo il rapporto, gli shock di reddito e la povertà sono i due principali fattori economici che spingono gli individui verso il lavoro forzato. Altri fattori di rischio e di vulnerabilità comprendono la mancanza di istruzione, l’analfabetismo, la parità di genere e la migrazione.

«Se dei progressi sono stati raggiunti nella riduzione del lavoro forzato imposto dallo Stato, dobbiamo ora concentrarci sui fattori socio-economici che rendono le persone vulnerabili al lavoro forzato nel settore privato», ha affermato Beate Andress, Direttrice del Programma speciale d’azione dell’ILO contro il lavoro forzato.

Beate Andress raccomanda una serie di misure tese a ridurre la vulnerabilità al lavoro forzato, tra cui:
  • Rafforzare la protezione sociale di base per evitare che le famiglie più povere chiedano prestiti in caso di perdite improvvise dei redditi;
  • Investire nell’istruzione e nella formazione professionale per rafforzare le opportunità di lavoro per i lavoratori vulnerabili;
  • Promuovere un approccio alla migrazione fondato sul rispetto dei diritti al fine di prevenire il lavoro irregolare e abusi nei confronti dei lavoratori migranti;
  • Sostenere le organizzazioni dei lavoratori, in particolare nei settori più vulnerabili al lavoro forzato.

«Se vogliamo portare un cambiamento reale alle vite di questi 21 milioni di uomini, donne e bambini vittime del lavoro forzato, dobbiamo agire concretamente e rapidamente», ha dichiarato Guy Ryder. «Questo vuol dire lavorare con i governi per rafforzare le legislazioni, le politiche e la loro applicazione, con i datori di lavoro per rafforzare la loro due diligence contro il lavoro forzato, in particolare nella loro catena di fornitura, e con i sindacati perché possano rappresentare e rafforzare le persone a rischio».